Riflessione sulla responsabilità affettiva, la cultura della guarigione e il ruolo della cura professionale
Negli ultimi
anni, sia sui social che nel mondo della spiritualità, della crescita personale
e persino nella narrativa televisiva ed editoriale, sta emergendo con forza il
concetto di “persona medicina”.
Una figura idealizzata, spesso descritta come capace – con la sola presenza –
di “curare” le ferite emotive degli altri.
È
un’immagine suggestiva, che risponde a un bisogno autentico: essere visti,
accolti, compresi.
Ma come psicologo e educatore sessuale, mi interrogo su dove questa narrazione
stia portando il discorso pubblico sul benessere mentale ed emotivo.
Quando la persona "cura"... ma non dovrebbe
In molti
casi, più che di “persone medicina”, sarebbe più onesto parlare di “persone
proiezione”: individui su cui carichiamo aspettative di salvezza, desideri
profondi e irrisolti, nel tentativo – spesso inconsapevole – di non sentire la
nostra vulnerabilità o inadeguatezza.
In questo
scenario, anche la figura del caregiver – familiare, partner, amico che
offre sostegno quotidiano – rischia di essere investita di un ruolo che non
può e non deve sostenere: quello del terapeuta, del medico, del guaritore.
Il caregiver è una figura preziosa, umana, vicina.
Ma non può sostituirsi a chi è formato professionalmente per affrontare,
contenere e trattare la sofferenza psichica fisica o relazionale.
L’amore non è una terapia
Spesso si
confonde l’intensità emotiva o la connessione profonda con la possibilità di
guarire l’altro.
Ma la cura – quella vera – non è un gesto romantico. È un processo clinico,
faticoso, delicato, che richiede strumenti tecnici, supervisione, responsabilità
etica e confini chiari.
Quando
l’altro viene investito del compito di “guarirci”, si rischia di trasformare la
relazione in una dinamica di dipendenza affettiva. E chi si trova “a curare”,
spesso senza volerlo, può finire esausto, svuotato, oppresso da una missione
impossibile.
La vera responsabilità? Cercare gli strumenti giusti
Le relazioni
sane possono avere un potere trasformativo. Possono sostenere, motivare,
nutrire.
Ma aiutare non è guarire.
E il primo passo verso una vera guarigione è riconoscere il proprio bisogno e chiedere
aiuto ai professionisti giusti.
Psicologi,
medici, personale sanitario: queste sono le vere “persone medicina”.
Non perché “salvano” o “curano con la presenza”, ma perché sono formati per
farlo, perché conoscono le dinamiche profonde della sofferenza e sono in grado
di accompagnare le persone dentro percorsi strutturati, sicuri e realistici.
In conclusione
La cultura
della guarigione – oggi alimentata anche dalla TV, dai libri e dai social – ha
il merito di aprire un dialogo sul dolore e sulla vulnerabilità. Ma va guidata
con senso critico.
Non
romanticizziamo il dolore.
Non trasformiamo l’amore in terapia.
Non carichiamo il prossimo del compito di guarirci.
Prendersi
cura di sé è un atto di responsabilità.
E quando serve, il gesto più amorevole che possiamo fare verso noi stessi è
affidarci a chi ha le competenze per accompagnarci davvero.
Le relazioni non sono medicine. La cura vera ha strumenti, confini e competenze.
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