Nel ruolo genitoriale si intrecciano molteplici sfide: affetto, responsabilità, limiti, senso di colpa. Una delle più sottili ma insidiose è la tendenza — spesso inconsapevole — a voler essere amici dei propri figli.
Essere genitori, però, non è un esercizio di simmetria. È un compito educativo che richiede presenza, fermezza e, soprattutto, una visione a lungo termine.
I piani devono rimanere sfalsati, perché è proprio questa differenza che permette ai figli di essere accompagnati, sostenuti e orientati. Il genitore non cammina allo stesso livello del figlio: osserva da un’altra prospettiva, più ampia, più matura, e da lì si assume la responsabilità di indicare la strada.
Un genitore non può essere la "migliore amica" o il "migliore amico" del proprio figlio. Quando questo accade, spesso non si sta esercitando il ruolo genitoriale su un piano autentico, e a livello più sottile si rischia di entrare in dinamiche manipolatorie, anche se involontarie. Il bisogno di vicinanza, di approvazione o di compensazione non può mai sostituirsi alla funzione educativa.
Uno degli strumenti più importanti in questo processo è la capacità di dire “NO”.
Educare significa anche avere il coraggio di stare scomodi, di reggere l’impopolarità, di tollerare la protesta. Ma è proprio in questa scomodità che si costruisce la fiducia: sapere che c’è un adulto che regge, che contiene, che guida.
La funzione genitoriale è, a tutti gli effetti, una funzione educativa, e come tale richiede consapevolezza, coerenza e strumenti interiori adeguati.
Quando il carico emotivo diventa troppo pesante, quando si fa fatica a trovare un equilibrio tra affetto e autorevolezza, un percorso psicologico può rappresentare uno spazio utile per ridefinire il proprio ruolo, sciogliere nodi interiori e rafforzare la propria funzione educativa.
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